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La storia ripetese stessa? Una conversazione tra Alessandra Franetovich e Arseny Zhilyaev

Arseny Zhilyaev25/07/24 18:11662

Alessandra Franetovich: Il tuo lavoro è profondamente radicato nell’eredità dell’Unione Sovietica e nella storia contemporanea della Federazione Russa. Per questo risulta necessario compiere qualche passo indietro nel tempo e affrontare alcune caratteristiche fondamentali. Come studiosa che indaga quest’area da una prospettiva occidentale, mi sono imbattuta nel tuo lavoro quasi dieci anni fa e ho immediatamente intuito la possibilità di una connessione — non importa quanto lieve — tra la tua pratica e il concettualismo di Mosca. Ho pensato che questa impressione potesse derivare da un fatto molto semplice, ovvero dall’ossessione che stavo vivendo in quel momento specifico mentre, a Berlino, scrivevo la mia tesi su Vadim Zakharov affrontando la sua partecipazione a questo movimento artistico. Quando si approfondisce un argomento complesso, spesso si percepisce la sua influenza estendersi a ciò che ci circonda. Allo stesso tempo, credo di aver immediatamente sentito che il tuo lavoro risiede nell’intreccio tra la vita quotidiana e le storie, e nella creazione di opere che sfidano radicalmente la comprensione della storia, una disciplina in costante revisione. Il collegamento con il concettualismo moscovita può essere visto in questo senso, nel comune bisogno di negare la storia ufficiale e di riscrivere le tante storie dimenticate. Successivamente ho letto un tuo testo in cui menzionavi l’interesse per il concettualismo moscovita da giovane artista e non ne sono rimasta affatto sorpresa1. Riguardo questo interesse per il movimento artistico, è stato importante mentre vivevi e lavoravi a Voronezh, la tua città natale? Ci si aspettava allora che un artista si interessasse al gruppo artistico moscovita più conosciuto a livello internazionale dopo la stagione delle avanguardie? Ha senso interpretare il tuo interesse come un riflesso della dinamica a cui ci riferiamo da tempo come rapporto tra centri e periferie, che rimane così centrale nel panorama geopolitico odierno?

Free Time Bureau "2162 "Я" che hanno lasciato Delitto e castigo", 2024
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Arseny Zhilyaev: A dire il vero, solo di recente ho cominciato a riconoscere consapevolmente l’influenza del concettualismo di Mosca. Ciò è dovuto alla delusione provata per gli idoli della mia giovinezza che ho sperimentato dopo essermi trasferito da Voronezh a Mosca, per studiare, a metà degli anni 2000. Mi è stato chiaro che ciò che leggevo negli archivi e nelle biblioteche online (ad esempio la documentazione dei progetti artistici di Collective Actions, i libri della casa editrice concettuale Obskuri Viri o le pubblicazioni di AdMarginem, come il Dizionario della Scuola concettuale di Mosca) sono solo tracce di un fenomeno che, in gran parte, era già scomparso. Piuttosto che le confortanti discussioni in bianco e nero sulle categorie di Kant durante le passeggiate attraverso i campi innevati, Mosca mi ha dato esperienze come sopravvivere in fabbriche semiabbandonate, lavorare come corriere e interagire con circoli marxisti. Allo stesso tempo, Pavel Pepperstein ha scritto da qualche parte che il concettualismo è finito quando, a causa del massiccio sviluppo di Mosca, la vista dalla finestra del suo appartamento, che fungeva da luogo di incontro per il suo gruppo artistico Medical Hermeneutics, è cambiata. Il capitalismo era poco adatto come sfondo per il popolo dell’underground sovietico… Ma la vita andava avanti. Su invito di Andrei Monastyrski, ho preso parte all’azione Rope nel 20072. E aiutando il critico e curatore Joseph Backstein presso il suo Istituto per i problemi dell’arte contemporanea a Mosca, ho spesso avuto l’opportunità di visitare lo studio di Ilya Kabakov, dove l’istituto è stato poi localizzato. Attraverso Backstein ho incontrato, ad esempio, gli artisti Elena Elagina, Vitaly Komar e Leonid Sokov. Durante la mia visita alla retrospettiva di Vadim Zakharov alla Galleria Tretyakov, ho ricevuto dalle sue mani un gigantesco volume “dorato” dedicato all’eredità del concettualismo moscovita3. L’artista e poeta Dmitry Aleksandrovich Prigov ha detto parole calorose che sono state importanti per me riguardo alla mia prima installazione, creata per conto dell’Istituto per la ricerca di frontiera. Questo era il regalo più bello che potessi ricevere dall’Universo… Eppure ho capito che muoversi nella stessa direzione dei concettualisti nelle realtà degli anni 2000 era molto difficile. Niente di tutto questo ha funzionato.

Solamente dopo più di 10 anni, alla fine degli anni 2010, ho cominciato a pensare che la mia pratica artistica spesso seguisse inconsciamente i rappresentanti dell’underground sovietico. Ho deciso allora di studiare più da vicino la questione del concettualismo. Ciò ha coinciso con un’altra ondata di interesse e discussione sull’eredità del movimento artistico forse più popolare della fine dell’Unione Sovietica. Più o meno nello stesso periodo, Monastyrski coniò il termine “esibitismo” per riferirsi a giovani artisti che utilizzano vetrine e, di conseguenza, oggetti, come “mostre”4. Ma inizialmente ho interpretato erroneamente il termine come “esposizionismo”, che è un po’ vicino, ma in russo sposta l’accento dall’oggetto al fatto stesso dell’esposizione. Questo malinteso è stato piuttosto rivelatore e rifletteva le specificità della mia percezione dell’arte. Naturalmente, a quel punto, avevo passato anni a indagare il museo e il formato espositivo come principali mezzi artistici oggi. Ho nominato Aleksei Fedorov-Davydov come mio predecessore nell’arte. Lui è stato un rappresentante dell’approccio social-formalista all’arte e, insieme ai suoi colleghi, ha sviluppato il metodo del “complesso sperimentale della mostra marxista” negli anni Venti e Trenta mentre prestava servizio come capo del dipartimento di “capitalismo industriale” alla Galleria Statale Tretyakov.

C’è stato un evento importante per me: la mia prima visita a New York nel 2014. Durante una conferenza sulle istituzioni para-fittizie chiamata Setting as Spatial Strategy, che era accompagnata dalla mostra A Story of Two Museums: An Ethnographic Exhibition alla James Gallery, CUNY Graduate Center, ho incontrato Goran Đorđević — un artista dell’ex Jugoslavia o ‘un portiere’, come lui stesso si definisce — del Museum of American Art (MoAA), e David Wilson del Museum of Jurassic Technology di Los Angeles. Goran si è rivelato essere la prima persona vivente che mi era veramente vicina in termini di metodologia. Dopo aver rifiutato l’eredità dell’arte concettuale pura del suo tempo e aver criticato l’arte come specifica formazione capitalista, ha concentrato i suoi sforzi sulla decostruzione dell’eredità del modernismo e del canone dell’arte statunitense, visti attraverso il prisma della storia delle mostre. La metodologia della “de-artizzazione”, intesa come un tipo speciale di attività umana radicata nel modo di produzione capitalistico e applicata dal Museum of American Art (МоAА), sembrava vicina al metodo di Fedorov-Davydov. Questo ha portato a una nostra collaborazione, fruttuosa e a lungo termine, in particolare alla mostra realizzata assieme per il Centro di Museologia Sperimentale di Mosca e il MoAA di Berlino, intitolata Moscow Diaries. Il progetto era incentrato sui diari di Walter Benjamin e Alfred Barr, i quali visitarono la capitale del giovane stato sovietico negli anni Venti. Il loro “non incontro”, secondo gli organizzatori, ha portato alla nascita di due versioni dello sviluppo dell’arte. Una era incarnata nel canone del modernismo occidentale progettato da Alfred Barr per una mostra al MoMA di New York. La seconda costituisce la base del modello artistico d’avanguardia di Walter Benjamin, che trascende i confini delle istituzioni. Inoltre, la mostra a Berlino ha ricostruito la stanza di Kazimir Malevich nella mostra Cubism and Abstract Art al MoMA (1936), curata da Alfred Barr, e un’esposizione a Mosca delle opere dell’artista alla Galleria Statale Tretyakov negli anni Venti a cura di Fedorov-Davydov.

A quel punto ero già entrato in contatto con Boris Groys, che ha scritto il testo per il mio distopico Museum of Russian History [Museo della storia russa]5, esposto alla Kadist Foundation6. I pensieri di Groys sull’installazione, le specificità delle posizioni curatoriali e artistiche, i suoi dialoghi con Ilya Kabakov, il suo stile di pensiero paradossale e, naturalmente, il suo interesse per il cosmismo mi hanno profondamente influenzato.

In un certo senso, Anton Vidokle, che è nato a Mosca ma si è trasferito con i suoi genitori a New York da adolescente, dove successivamente è entrato in contatto con Victor Skersis e, ovviamente, con Groys, può essere interpretato come un lontano frammento del concettualismo moscovita. Con Anton abbiamo realizzato molti progetti, ci siamo concentrati principalmente sul cosmismo e sulla sua interpretazione marxista, ma anche molti dei suoi progetti del periodo pre-cosmista fanno parte della mia arte. Citando solo il mio interesse per la produzione di istituzioni e scuole, ad esempio penso a Time/Bank7.

Oggi, mentre contemplo la posizione dell’artista nel contesto dell’aggressore, mi ritrovo a pensare molto all’arte di Hanna Darboven. Nacque a Monaco all’inizio della seconda guerra mondiale in una famiglia abbastanza benestante e, a parte un breve periodo a New York, trascorse la maggior parte del tempo nella casa di famiglia ad Amburgo. Potrei non avere abbastanza argomenti logici o psicoanalitici per giustificare l’influenza delle circostanze storiche della sua vita e delle sue origini sulle specificità dell’arte di Darboven. Probabilmente non è così importante. Tuttavia, facendo arte nel 2024 che parla anche di tempo superandolo come redenzione, e arte che comporta l’abbandono di se stessi e il seguire un procedimento spesso assurdo, mi sento connesso anche a lei.


AF: Percepisco sempre più i movimenti della storia attraverso due prospettive principali: in primo luogo, il presente, che può essere visto come un tempo costruttivo, ma ci troviamo spesso alle prese con la ricerca di significato tra le pressioni del passato e futuro. Questa duplice prospettiva ci posiziona come osservatori, esaminando il passato da una distanza temporale, una posizione che sembra incerta, stando in un luogo indefinito: si guarda al passato ma allo stesso tempo si pensa e ci si proietta nel futuro. Ma questo sentimento è stato formulato meglio da Groys in Comrades of Time, dove fornisce anche un punto di vista interessante per la nostra discussione: «Quindi, l’arte contemporanea può essere vista come arte coinvolta nella riconsiderazione dei progetti moderni»8.

La tua storia, qui brevemente raccontata, appare come una catena di momenti in cui diverse trame temporali si sono sovrapposte, scontrandosi e creando nuove direzioni. Entrando nello specifico, e tornando per un attimo alla storia della scena artistica e culturale moscovita, il decennio dal 1986 al 1996 è stato ben descritto (per chi come me non lo ha vissuto dal vivo) in Exhibit Russia. The New International Decade 1986–19969. Questo periodo, segnato dal progressivo ingresso del sistema internazionale, inizia con l’asta di Sotheby’s a Mosca del 1986 che ha rappresentato una svolta significativa per l’introduzione del capitalismo nell’allora sistema artistico underground. Questo periodo è stato caratterizzato da numerosi progetti intrapresi da individui che, con forza, lungimiranza e speranza hanno iniziato a costruire spazi, organizzare eventi e promuovere una rete per valorizzare la produzione di arte contemporanea, alcuni spinti da interessi commerciali e di potere. Tra questi potremmo annoverare progetti artistici ed educativi, nonché gallerie. L’era post-1989, caratterizzata dal dilagare della democratizzazione e della globalizzazione, è stata inizialmente percepita come un passo importante verso il futuro, un periodo positivo. Tuttavia, ha anche aperto un vaso di Pandora provocando un misto di instabilità politica, rischio di guerra civile, nuove e profonde questioni economiche e la transizione verso un nuovo regime di proprietà, nonché la libertà di acquistare una crescente varietà di beni di consumo.

Questo è stato anche il decennio di un’importante diaspora, avvenuta in particolare alla fine degli anni Ottanta. Nel decennio precedente molti intellettuali avevano già lasciato l’URSS ma la possibilità di un loro ritorno era praticamente nulla. Sembrava un viaggio di sola andata. I primi permessi di lasciare l’URSS, concessi agli artisti per recarsi all’estero in occasione delle loro mostre, avvennero, molto più tardi, nella seconda parte degli anni Ottanta. Anche questo è un punto fondamentale su cui vale la pena soffermarsi: la condizione degli artisti diasporici che stai vivendo attualmente.

Vorrei aggiungere un’osservazione sempre legata a Mosca. Il primo decennio del 2000, quando sei arrivato in città, è stato ancora diverso. Da un sistema traballante e fragile, costruito sul lavoro di molti individui o piccoli gruppi, una parte significativa della produzione cittadina è stata assorbita dagli oligarchi che, utilizzando metodi capitalistici che ricordano quelli visti negli Stati Uniti, hanno fondato progetti d’arte con intenti di mecenatismo. Nel 2004 è stata fondata la Stella Art Foundation, nel 2008 il Garage (inizialmente come centro d’arte contemporanea, e solo successivamente è diventato il museo che conosciamo oggi), e la V-A-C Foundation nel 2009. Questi sono solo alcuni esempi, tra i più affermati a livello internazionale, di un periodo di intensi scambi e di diplomazia culturale. Aspetti che sono stati poi sviluppati maggiormente nel decennio successivo.

Al di là di ciò, o forse proprio nel confronto diretto con aspettative riposte nel dialogo con l’Occidente e con la scena internazionale, molte forme di critica e autocritica hanno sempre tormentato lo sviluppo dell’arte contemporanea russa. Non mi riferisco solo agli attivisti; anche artisti e opere d’arte meno radicali hanno attaccato e deriso le autorità e le gerarchie sociali e culturali, tentando anche di stabilirne di nuove. Personalmente trovo fondamentale una riflessione di Zdenka Badovinac: a suo dire, mentre l’Occidente ha permesso lo sviluppo dell’institutional critique, nell’Est Europa artisti e professionisti hanno lavorato all’institutional building10. In sostanza c’era per loro bisogno di stabilire e coltivare un sistema parallelo, alternativo e vivace in cui agire politicamente senza conformarsi al potere ufficiale. Credo che questo sia legato anche ad una sorta di scetticismo nei confronti delle istituzioni. Questa critica si è evoluta (probabilmente lentamente, ma comunque lo ha fatto) in nuove forme a causa del riemergere di gravi cambiamenti politici. Mi vengono in mente gli avvenimenti posteriori all’invasione della Crimea, durante Manifesta 10 a San Pietroburgo, un momento segnato da richieste di boicottaggio e dal ritiro di Chto Delat. Mi sembra sia stato un momento spartiacque per l’affermazione di un nuovo livello di auto-riflessione. Ha forse rappresentato un ritorno ad un senso di dissidenza più originario? Pensando alla tua produzione, il tuo interesse per la teoria artistica e la museologia marxista rappresenta un tentativo di indagare un patrimonio problematico? Sento nel tuo lavoro un forte senso di inquietudine e scetticismo nei confronti delle forme di canonizzazione storica in quanto metodi per perpetuare modelli già esistenti, mentre mi sembra che tu ti concentri e affronti questioni irrisolte. Penso proprio alla ricerca per Avant-Garde Museology. Come è iniziata questa ricerca? E perché?

Free Time Bureau "2162 "Я" che hanno lasciato Delitto e castigo", 2024
Free Time Bureau "2162 "Я" che hanno lasciato Delitto e castigo", 2024

AZ: Il mio interesse per la museologia marxista è nato subito dopo il mio trasferimento a Mosca. Nel 2008 ho visitato l’ex Museo della Rivoluzione (ora Museo di Storia Contemporanea della Russia) e ho capito che in queste sale poco frequentate si poteva ancora percepire l’eco delle avanguardie storiche. Siccome a quel tempo non erano stati ancora effettuati importanti riallestimenti museali, tutto appariva più o meno uguale a come era negli anni Ottanta. Naturalmente il Museo sovietico della Rivoluzione era lungi dall’essere un luogo di libera discussione. Il canone di rappresentazione della rivoluzione, l’evento principale che ha dato origine allo Stato proletario, fu formato dopo la seconda guerra mondiale e, nonostante il processo di destalinizzazione, conteneva comunque una grande quantità di censura. Per la Russia di Putin, il fatto stesso di avere la parola “rivoluzione” in uno dei principali musei del Paese è stata una grande sorpresa perché era già interpretata come un evento prettamente negativo. Tuttavia, chi era interessato alla storia poteva comprendere il cuore del sistema ideologico — Đorđević, ad esempio, afferma che un museo è un luogo che contiene prove materiali di una specifica narrazione — dove apprendere come venivano costruite le barricate a Mosca, come le tipografie clandestine resistevano alla propaganda di stato e come le persone resistevano alla violenza della polizia. Sono rimasto stupito da queste cose, così come dall’organizzazione delle esposizioni stesse che era molto convincente.

In sostanza, stavamo parlando di installazioni narrative comprendenti collage spaziali costruiti sui principi della defamiliarizzazione, un termine usato per la prima volta dall’eminente formalista russo Viktor Shklovsky e che ha svolto un ruolo importante nel teatro di Bertolt Brecht e nella teoria strutturalista. L’idea alla base non era di immergere lo spettatore in un ambiente spettacolare ma piuttosto di giocare continuamente con la distanza, contestualizzando e ricontestualizzando gli stessi eventi attraverso diverse prospettive, tipi di conoscenza, ecc. Niente di simile si poteva trovare nelle istituzioni artistiche russe tra il 1990 e il 2000. A quel tempo non esistevano grandi musei di arte contemporanea. A Mosca c’erano solo gallerie relativamente piccole, grandi musei statali conservatori e istituzioni e centri d’arte auto-organizzati. Ho solo ricordi frammentari dell’arte politicamente impegnata; ricordo ad esempio la mostra di Misiano alla locale ICA, probabilmente nel 2006 (il centro sarà presto trasformato e chiuso), o la galleria France, realizzata dagli studenti di Anatoly Osmolovsky del gruppo Radek. Alla fine degli anni 2000 vivevo e lavoravo in uno squat nel vicolo Khokhlovsky e lo spazio veniva utilizzato per mostre di amici. Ad esempio, abbiamo organizzato una delle prime mostre personali di Nikolay Oleynikov dei Chto Delat (nel 2022 si è trasferito in Italia per ottenere la residenza permanente a seguito della minaccia di reclusione). Ma per una città gigantesca come Mosca, questa è una goccia nell’oceano…

Hai ragione quando fai notare che i paesi del blocco sovietico non disponevano di infrastrutture serie per l’arte contemporanea. Separatamente, vale la pena ricordare che la Jugoslavia, che in precedenza era comunista ma in opposizione a Stalin, era piuttosto progressista su questo tema. Ad esempio, il Museo d’Arte Contemporanea di Zagabria, in cui Zdenka Badovinac ha lavorato per qualche tempo come direttrice dopo aver lavorato alla Moderna Galerija di Lubiana, è stata la prima istituzione europea ad adattare il prefisso “contemporaneo” anziché “moderno” in relazione a arte. Ciò accadde nel 1954, poco dopo la morte di Stalin. Ma tornando agli esordi della museologia sovietica del 1920–1930, le mostre marxiste di Fedorov-Davydov e dei suoi colleghi anticiparono le scoperte dell’arte concettuale e della critica istituzionale. Tutto ciò è avvenuto ma, come nel caso dell’avanguardia comunista, si è rivelato un “eccesso di sinistra”.

Mi sono reso conto che gli ex musei della rivoluzione forniscono una metodologia molto interessante la quale può essere utilizzata per criticare lo stato attuale delle cose. Naturalmente si parlava solo di attività laboratoriale, ma per me era già tanto. Nel gennaio 2009, nella galleria auto-organizzata H.L.A.M. di Voronezh, ho esposto The New Museum of the Revolution [Il nuovo museo della rivoluzione]. La mostra era molto diversa in termini di materiali usati, ma la sua struttura concettuale rimane rilevante per me fino ad oggi. Gli spettatori si sono ritrovati in un museo della rivoluzione del futuro, in cui la narrazione del suo passato si rivelava vicino al nostro presente. Questa distanza temporale ha permesso di evidenziare più acutamente le tendenze attuali che sono ancora nella loro infanzia e di guardare in modo critico alla situazione contemporanea. Qualche anno dopo ho portato avanti questa logica collaborando con istituzioni vere. Museum of Proletarian Culture. The Industrialization of Bohemia [Museo della Cultura Proletaria. L’industrializzazione della Boemia] era una libera ricostruzione dell’approccio di Fedorov-Davydov alla Galleria Statale Tretyakov. Pedagogical Poem. Archive of the Future Museum of History [Poesia pedagogica. Archivio del futuro museo di storia], al quale ho lavorato con Ilya Budraitskis e il collettivo del progetto, si occupava del patrimonio dell’ex Museo della Rivoluzione a Presnya. Entrambe le mostre hanno coinciso con la mobilitazione di massa nelle strade e con le più grandi proteste che si erano viste in Russia dall’inizio degli anni Novanta. A quel tempo ero già coinvolto in attività di attivismo ed ero diviso tra le manifestazioni in strada e il lavoro nei musei. L’inizio delle proteste di piazza ha sollevato la questione del valore di un progetto puramente di ricerca o speculativo. Di conseguenza, al centro dell’esposizione ho collocato uno stand educativo per spiegare come si svolgono le assemblee non gerarchiche nel campo Occupy Abay di Mosca, nonché un manifesto delle esigenze elaborate in quel contesto.

Gli sforzi reali dei manifestanti sono stati inscritti nella storia immaginaria del proletariato emancipatore (quindi spesso arte amatoriale e popolare) come coronamento dell’attività creativa, superando i confini dell’arte e della vita. Erano tempi piuttosto insoliti, quando la censura permetteva ancora cose del genere nei musei statali. A Presnya, abbiamo voluto esplorare alcune lacune nell’esposizione sulla storia della rivoluzione in base ai risultati del lavoro di ricerca svolto negli archivi del museo, ma ci è stato vietato di esporre nelle sale della mostra permanente quindi l’evento ha avuto luogo nello spazio delle mostre temporanee. Ben presto anche questo è divenuto impossibile.

Nel 2013 ho curato la versione nomade della mostra Living as Form (The Nomadic Version), originariamente creata da Nato Thompson in collaborazione con Creative Time e l’Independent Curators International (ICI). Abbiamo arredato il laboratorio di un’ex cartiera con mobili vecchi trovati gratuitamente su Internet. Le opere sono state esposte in un’atmosfera molto accogliente e piuttosto insolita e i visitatori potevano sedersi sui divani e guardare film su forme di vita nuove e radicali. Credo che questa sia stata l’ultima volta in cui l’arte ucraina politicamente impegnata sia stata esposta a Mosca, con la partecipazione del gruppo REP di Kiev e il gruppo Soska di Kharkiv. Un anno dopo è scoppiata la guerra in Ucraina e ho iniziato a tornare in Russia solo per brevi periodi di tempo. Per puro caso, un gruppo della Kadist Foundation ha visitato Living as Form e sono stato invitato a portare il progetto in residenza prima a Parigi, poi a San Francisco. Per vari aspetti, è stato un punto di svolta per me. Il fallimento del movimento di protesta Bolotnaya ha poi predeterminato gli eventi successivi in Russia. Oggi, mi sembra che questa sia stata la nostra ultima possibilità per prevenire il male cui stiamo ancora assistendo. Lo penso anche se le speranze formulate allora mi sembrano oggi molto ingenue. La protesta era un carnevale divertente mentre la gente voleva il cambiamento, non un festival delle arti. Tutto ciò era chiaro già allora, ma fino ad oggi mi è stato difficile immaginare come avremmo potuto cambiare la situazione.

A Parigi, ho presentato un museo distopico sulla storia futura della Russia, in cui la religione venerava il meteorite, Putin era artista principale del Paese ed erano presenti sculture viventi di manifestanti sconfitti in parchi hipster e signorili. Una forma di autoironia sul nostro fallimento. Alla vigilia dell’apertura, è iniziata la Rivoluzione della Dignità o Euromaidan in Ucraina e, sullo sfondo dell’allora recente repressione delle proteste in Russia, mi era sembrato molto motivante. Ma sei mesi dopo, quando avrei dovuto mostrare lo stesso progetto negli Stati Uniti, l’annessione della Crimea era già avvenuta e le truppe russe avevano invaso il Donbass e Lugansk. Abbiamo deciso di cambiare il titolo per includere “persone educate” (una parola gergale utilizzata per indicare le forze di occupazione russe) e aggiungere un capitolo su un impero intergalattico. L’umorismo, come mi sembrava allora, dava una distanza critica a ciò che stava accadendo e addolciva la nostra sconfitta. Tuttavia è diventato chiaro che non mi era possibile credere che l’arte potesse influenzare seriamente la situazione politica nel mio paese. La mia attenzione ha cominciato così a spostarsi verso la speculazione su un futuro più lontano.

Nel 2014 ho visto il lavoro di David Wilson alla James Gallery di New York e questo ha alimentato il mio crescente interesse per la filosofia del cosmismo russo e l’interpretazione del museo di Nikolai Fedorov. Una delle mostre del Museum of Jurassic Technology trattava l’argomento. Da allora realizzo progetti dedicati alla percezione critica della politica della resurrezione e della vittoria sulla morte. Storicamente antecede la museologia marxista ma concettualmente sembra superarla. Ho trovato molto interessante lavorare con la versione marxista del cosmismo e negli anni successivi ne ho testato le caratteristiche.

AF: Quando, attorno al 2014, sono venuta a conoscenza del tuo lavoro e ho approfondito i tuoi metodi per unire arte e politica. Questo si riflette anche nel tuo interesse per il cosmismo, che infatti costituisce un aspetto importante della tua ricerca da molti anni. Mi piacerebbe approfondire proprio questo. Quando penso al cosmismo nell’arte e nella letteratura, mi viene in mente Stella Rossa di Aleksander Bogdanov. Nel suo romanzo, una delle prime opere di fantascienza mai scritte, l’autore descrive una società comunista extraterrestre stabilita su Marte. Si racconta poi che il protagonista fosse ispirato alla figura di Lenin. Il romanzo è stato scritto subito dopo la prima rivoluzione del 1905 e Bogdanov era assolutamente coinvolto nel cosmismo, nei tentativi rivoluzionari e nella politica ed è per questo che vedo nel libro un esempio di arte e attivismo. Come infine hai già accennato, l’attivismo è sempre stato un aspetto fondamentale nella tua pratica artistica. Vorrei citare un estratto dal tuo testo Ethics of the Future: Art in Extraordinary Situations of Emerging Hope [Etica del futuro: l’arte in situazioni straordinarie di speranza emergente], pubblicato proprio nel 2014, anno durante il quale sono avvenuti cambiamenti nella scena artistica a causa dell’invasione della Crimea:

«Noi, professionisti della cultura, usciremo dalle nostre celle per incontrare la vita reale e lottare per essa insieme a migliaia di compagni sognatori. Il terrorismo artistico compiuto dai solitari e dai pochi nuclei settari d’avanguardia deve essere sostituito da un ampio flusso di artisti che lottano per restituire al mondo la speranza per un futuro migliore»11.

Durante quest’anno e i successivi, gli ambienti artistici affiatati e familiari (le tusovka, come le definisce Viktor Misiano) hanno cominciato a svanire — o almeno, come hai già accennato, c’era una forte propensione al rinnovamento e alla rivoluzione. Tuttavia, il sospetto e la sfiducia hanno iniziato presto a prendere sempre più piede. Una nuova ondata di pensiero radicale, sentito come particolarmente urgente in tempi di sconvolgimenti sociali e politici in cui l’imperativo è di prendere una posizione chiara, ha ulteriormente destabilizzato la già fragile scena artistica. Ti sembra giusto vedere in questa atmosfera la motivazione che ti lega al cosmismo? Indagare le futurologie in tempi di devastazione sociale e politica assume una prospettiva specifica: forse creare una distanza dal presente tentando allo stesso tempo di capire come contribuire alla realizzazione della “cosa comune”, per citare Nikolai Fedorov. Ciò ricorda con chiara evidenza le tue parole (qui sopra citate) sulla necessità di lavorare insieme per un futuro migliore.


AZ: Sì, nel mio caso, le circostanze della vita, la mia ricerca artistica e il contesto storico si sono uniti in una combinazione che ha spostato l’enfasi su uno studio più intimo del cosmismo. Nel 2014 mi preparavo già a pubblicare un’antologia sulla museologia d’avanguardia. In un certo senso, seguiva il mio sviluppo come artista. Tutto ha avuto inizio con il credere in un gesto d’avanguardia autonomo, che rifiutava il museo e le istituzioni come nemici, poi seguito da un periodo di attivismo e politicizzazione, corrispondente alla museologia critica marxista, cui è succeduto, infine, il lavoro sul cosmismo e sul Museo della Resurrezione come radicalizzazione di ciò che la rivoluzione proletaria non poteva più realizzare. Nella sezione dei progetti del museo cosmista ho pubblicato un frammento tratto dalla Stella Rossa di Bogdanov, dove descrive l’arte e le sue istituzioni in una società comunista su Marte. Questo testo era forse la prima definizione di come potrebbe apparire un museo in una società che avesse risolto le sue contraddizioni. Oggi andrei oltre e interpreterei, ad esempio, l’Istituto per la trasfusione del sangue12, creato da Bogdanov come uno dei progetti ultimi dell’avanguardia. Un progetto che si allontana da molti dei limiti che oggi ci sono familiari. Non c’era paternità individuale, non c’era divisione tra vita e arte e non c’era problema di rappresentazione. I corpi agivano direttamente gli uni sugli altri… Per inciso, da qualche parte nella mia immaginazione, c’è la figura del mio connazionale Andrei Platonov. Ho anche pubblicato un frammento del suo romanzo Chevengur, in cui i personaggi costruiscono una sorta di museo a cielo aperto della rivoluzione, ribaltando così l’idea sia del museo che della rivoluzione. Platonov fu influenzato da Bogdanov indirettamente, attraverso le idee dell’arte produttivista del Proletkult e di Boris Arvatov13. Lo scrittore ha dedicato parte della sua vita al lavoro di ingegneria nei villaggi. Penso che questo possa essere visto come un contributo interessante all’arte produttivista che ancora trascuriamo quando parliamo dell’eredità di uno dei principali scrittori dell’avanguardia sovietica.

Mi interessava verificare se le idee cosmiste avrebbero funzionato nel mondo del capitalismo moderno. Ho presentato il primo progetto sul tema a Voronezh, una storia accelerazionista su una società spaziale creata da ufologi locali. Il tema degli alieni è sulle prime pagine dei giornali locali dalla fine degli anni Ottanta e la mia infanzia è trascorsa nella costante paura e nel desiderio di un contatto interplanetario.

Nel 2015, insieme a Mark Dion, abbiamo realizzato la mostra Future Histories. Mark ha esposto le origini del museo nei gabinetti delle curiosità mentre io ho presentato una speculazione sul tema del complesso museale Cradle of Humankind, organizzato sul pianeta Terra dopo che l’umanità si è diffusa nello spazio cosmico. Era una continuazione della storia distopica sulla Federazione Spaziale Russa. Gli spettatori potevano osservare il primo modello del corpo per la resurrezione Yuri 1 (di cui Gagarin fu il prototipo e il concetto del corpo come “pupilla fallica”, del cosmista Alexander Gorsky, il suo fondamento teorico), ed esplorare l’arte popolare di vari “triangoli” intergalattici, quindi familiarizzare con la storia di Konstantin Tsiolkovsky, resuscitato per esigenze museali.

A poco a poco, il mio interesse per il cosmismo si è concentrato sull’eredità del filosofo Valerian Muravyov e sulla sua idea di “padroneggiare il tempo”. Muravyov ha tentato di dimostrare scientificamente la possibilità dell’immortalità attraverso studi di fisica, matematica e filosofia contemporanea. Ho costituito l’Institute for Mastering of Time insieme alla game designer (ora artista) Asya Volodina, e il primo progetto indipendente dell’istituto è stato creato per il Bard College Graduate Center di New York, intitolato 1597 Seconds. I colleghi mi hanno invitato a fare una serie di eventi sulla museologia d’avanguardia e, come degno sostituto del lavoro seminariale, è nato un LARP, dove persone e oggetti cambiavano alternativamente posto all’interno di diversi sistemi di relazione con gli oggetti. L’ultimo grande progetto per conto dell’istituto è stato realizzato nel dicembre 2021 a Sapot, Polonia e Lisbona, Portogallo. Questo era un museo e un “rave-laboratorio” basato sul libro di Muravyov The Mastery of Time (1924), in particolare sul capitolo della rivoluzione delle formiche radio intergalattiche, preservato solo in bozze. Abbiamo esposto quindi il capitolo sulla celebrazione svolta dopo la vittoria della rivoluzione, in questa occasione le formiche potevano connettersi ai corpi delle persone partecipanti e che ballavano alla mostra, e imparare insieme come “ingrandire” o “rimpicciolire” i momenti nel tempo. Ho apprezzato molto questo progetto perché ha previsto una collaborazione tra artisti provenienti da Russia, Ucraina e Slovenia che si sono esibiti per conto dell’Institute for Mastering of Time. Dopo il 2022, le dichiarazioni fatte nell’ambito dell’istituto sono state principalmente miei sviluppi individuali per il mio archivio personale del futuro dell’arte contemporanea. In un certo senso, il tema della comunità immaginata, vista come un sogno nella solitudine, ha sempre avuto un significato per me. Ma sono felice che ci siano stati periodi nella mia vita in cui ho potuto realizzare progetti collaborativi coinvolgendo un gran numero di persone.

Alessandra, ti ricordi, ovviamente, che a marzo 2022 avremmo dovuto inaugurare insieme, come artista e curatrice, una mostra sul tempo rubato dai ricchi e sulla resurrezione di Pier Paolo Pasolini presso Cripta747 a Torino. Dopo l’inizio dell’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia, è però diventato chiaro che non sono state rubate centinaia di migliaia di anni, ma milioni o anche di più. Durante quel breve periodo di tempo, i pacifisti russi avrebbero potuto condividere le loro risorse ed estendere inviti ai loro colleghi ucraini e loro avrebbero potuto essere d’accordo. Ben presto è divenuto impossibile. Ad aprile abbiamo deciso di lasciare la mostra vuota, intesa come spazio per potenziali incontri e conversazioni sugli eventi in corso, conservando anche il budget per progetti futuri volti a promuovere la pace e sostenere l’Ucraina.

Mi piacerebbe davvero realizzare un progetto che, almeno ad un livello immaginario, possa lavorare anche solo in parte su questa perdita. Forse questo sarà l’ultimo progetto dell’Institute for Mastering of Time e, scusa il gioco di parole, probabilmente richiederà molto tempo per essere completato… Abbiamo commesso un errore nei nostri calcoli e dovremo vivere il resto della nostra vita con le conseguenze di questo errore. A poco a poco mi sono reso conto della necessità di allontanarmi dalla figura del maestro proletario e dalle speranze degli anni Venti che spesso si trasformano in qualcosa di distopico. Forse il tentativo stesso di deridere il discorso accademico ha cessato di essere rilevante per me. Non voglio più alcun “istituto”, almeno per ora. Ho ideato il Free Time Bureau con l’idea di liberare il tempo o di liberarci dal tempo. Attualmente lavoro da solo in un’impresa e, nonostante “l’immaterialità” delle sue attività ossessive, di solito è associata a una grande quantità di lavoro manuale che in parte mi riporta al periodo della fine degli anni 2000. Questo mi aiuta.


AF: Hai concepito il progetto espositivo 654395 Years Are Not Enough (inizialmente intitolato 654395 Years o semplicemente DCLIVCCCXCV) per Cripta747 prima dell’escalation del conflitto russo contro l’Ucraina14. Dal 2022 ad oggi stiamo assistendo a una realtà sempre più dura, segnata dalle crudeltà della guerra e del genocidio, dalle ingiustizie sociali e dall’uccisione di civili e dissidenti. Consideriamo il caso di Aleksei Navalny, ucciso in un carcere russo dopo essere stato avvelenato per l’attività politica e di oppositore. La perdita di ogni speranza sembra così vicina. Sembra che tutto stia diventando oscuro: distruzione, guerre, carestie, cambiamento climatico, teorie del complotto, post-verità, così come gli studi sul futuro e la nuova era spaziale. Tutti i segnali puntano verso la fine del mondo. Forse aggiungerei la fine del mondo “migliore”, il che per me ha risvolti peggiori. Voglio pensare che il dolore che stiamo provando stia effettivamente rafforzando la necessità di apportare cambiamenti radicali: non possiamo restare in silenzio e lasciare che il mondo crolli, che i sentimenti di solidarietà, amicizia e amore scompaiano. In questo periodo di transizione sempre più spesso mi chiedo «qual è il valore di fare arte e storia dell’arte?». Mi pongo questa domanda con cadenza quotidiana, anche per evitare qualsiasi tentazione di cadere nel solipsismo. Mi sento come se mi stessi aggrappando a modelli del passato e della nostra epoca — persone, intellettuali, artisti, scrittori, pensatori, ecc. — che hanno usato e continuano a usare tutto il loro potere per creare messaggi e isole di libertà. Penso e sento anche che questa mostra contribuisce a questa prospettiva. È fondamentalmente concepita per aprire la discussione e allo stesso tempo offrire un luogo di incontro, dove possiamo stare assieme e creare momenti significativi di riflessione e di costruzione di comunità… Come ti senti riguardo a questa mostra?

Free Time Bureau "2162 "Я" che hanno lasciato Delitto e castigo", 2024
Free Time Bureau "2162 "Я" che hanno lasciato Delitto e castigo", 2024

AZ: Penso che gli eventi degli ultimi due anni abbiano costretto molte persone nel campo dell’arte a dubitare di ciò che fanno e di come lo fanno. Purtroppo penso anche che ci troviamo in un periodo di transizione. “Purtroppo” perché non c’è certezza che si tratti di un passaggio verso qualcosa di migliore. C’è la sensazione di una completa mancanza di futuro e di cambiamenti costruttivi nel mondo. Il massimo che l’umanità può sperare è di fermare le minacce esistenziali come non morire di guerra nucleare o cambiamento climatico. Gli ultimi due anni sono stati forse gli anni più difficili della mia vita ma la risposta concreta alla situazione, formalizzata a Torino, sembra essere per me l’unica possibile in termini di prosecuzione del mio lavoro. Ossia è l’arte come spazio di rinuncia di se stessi in favore della polifonia, di raccoglimento e di ricerca, sia pure in senso speculativo, di una via d’uscita dalle griglie in cui ci troviamo sempre.

Nei miei “musei” del futuro sono sempre partito dal fatto che l’arte è rimasta da qualche parte indietro e che le mostre esposte sono solo illustrazioni del passato di questo futuro. Ho sempre avuto molte domande sull’arte contemporanea, ma non ha mai mantenuto le sue promesse. Nonostante ciò continuo ad agire sul suo territorio. Durante lo scoppio della guerra in Jugoslavia, Goran Đorđević si trovava negli USA, lui non potè tornare a Belgrado e cessò di essere quello che era prima, diventando un “artista ex jugoslavo”. Dal 2022 ho pensato molto a ripetere il suo gesto. Mi piaceva l’idea di uno spostamento, di un rifiuto. Ma la pratica di Goran, basata sull’utilizzo di copie prive di valore artistico e che non conservano il nome del suo creatore, richiede logicamente il rifiuto del ruolo dell’artista. Gli artisti non fanno copie di opere d’arte, le realizzano da soli. Nel mio caso, e già a partire dal Museo della Cultura Proletaria, mi trovavo già in una situazione speculativa, ambigua dopo la fine dell’arte, per cui diventare un “ex artista” non mi era possibile. Così ho deciso di diventare un “ex” che organizza incontri (nel senso più ampio, includendo persone o determinati materiali, selezionando elementi, ecc.) con l’obiettivo di esporli e creare qualcosa, come ricerche basate su tutto questo. Infine, affinché ciò accada, è necessario uno script, uno scenario che determini gli eventi futuri.

Nei momenti difficili, spesso cerchiamo supporto nelle pratiche basilari che ci accompagnano fin dall’infanzia. Tutto quello che ho descritto ha fatto parte della mia vita fin dall’inizio, fino al mio scrivere sceneggiature per (futuri) giochi durante l’adolescenza. Tutto ciò va oltre il territorio convenzionale dell’arte contemporanea ed è stato al centro dei miei musei, delle pratiche dell’Institute for the Mastery of Time e dei progetti più intimi creati dopo il 2022. Se scomponiamo la nostra mostra attuale in elementi, è chiaro che Lingua Madre non esce da questa serie. Contiene incontri di persone, materiali selezionati e una sorta di ricerca o storia del futuro. Non ne sono sicuro, ma forse lascia spazio anche alla speranza. Questa mostra, come molte negli ultimi anni, ricorda sempre più un rito magico o mitologico. Tuttavia, le rovine persistenti del modernismo, le promesse perpetuamente rinnovate dell’arte contemporanea e il suo status percepito come territorio sicuro, sempre alla ricerca di cose migliori — come “l’autenticità” associata all’avanguardia, per esempio — sono tutti miti che continuiamo a considerare, reinventare, in modo da poterli poi decostruire ancora e ancora. Questa è la nostra ossessione. A volte sembra che possa salvarci da un’apocalisse nucleare, come accade in Sacrificio di Andrei Tarkovsky: un film che i miei colleghi russi hanno spesso ricordato negli ultimi due anni. O forse non ci salverà, ma ci aiuterà soltanto a non perdere l’illusione del controllo, come accade alla fine di Melancholia di Lars von Trier.


1. Arseny Zhilyaev on growing up after the Moscow conceptualists, in “Tate etc.”, 12 ottobre 2017, https://www.tate.org.uk/tate-etc/issue-41-autumn-2017/arseny-zhilyaev-growing-up-after-the-moscow-conceptualists

2. Sull’azione Rope, cfr. Journey to the Countryside. Volume Ten: https://conceptualism.letov.ru/KD-actions-109.html

3. Degot, Ekaterina, Vadim Zakharov (a cura di), Moscow Conceptualism, Moscow, WAM, 2005.

4. Orlova, Milena, Andrei Monastyrski, Мне интересно направление, которое я называю экспонатизмом [I am interested in the direction I call exhibitism], in “The Art Newspaper Russia”, 12 settembre 2018 https://www.theartnewspaper.ru/posts/6053/

5. Groys, Boris, Becoming a Meteorite, in Arseniy Zhilyaev M.I.R.: New Paths to the Objects, Paris, Kadist Foundation, 2014, pp.5–6.

6. Arseniy Zhilyaev: M.I.R.: New Paths to the Objects, Paris, Kadist Foundation, 2014, https://kadist.org/program/arseniy-zhilyaev-2/

7. Time/Bank, in “e-flux Projects”, https://www.e-flux.com/projects/415845/time-bank/

8. Groys, Boris, Comrades of Time, in “e-flux journal.” n. 11, dicembre 2009, https://www.e-flux.com/journal/11/61345/comrades-of-time/

9. Fowle, Kate, Ruth Addison, (a cura di), Exhibit Russia: The New International Decade 1986–1996, Moscow, Garage Museum of Contemporary Art, 2016.

10 Zhilyaev, Arseny, Avant-Garde Museology, New York, e-flux, The University of Minnesota Press, V-A-C Press, Kadist Foundation, 2015.

11. Budraitskis, Ilya, Arseniy Zhilyaev, Pedagogical Poem, The Archive of the Future Museum of History, Venezia, Marsilio Editori, 2014, p.148.

12. Vi erano molte innovazioni nell’ambito della medicina, ma dietro esse risiedeva l’idea di prolungare radicalmente la vita attraverso la trasfusione di sangue tra persone giovani e persone adulte. Sul tema cfr. Huestis, Douglas W., Alexander Bogdanov: The Forgotten Pioneer of Blood Transfusion, in “Transfusion. Medicine Reviews”, vol. 21, n. 4, ottobre 2007, pp.337–340; Vöhringer, Margarete, Avant-Garde and Psychotechnics: Science, Art and Technology in the Early Soviet Union, London, Routledge, 2023.

13. Arvatov, Boris, Art and Production, a cura di John Roberts e Alexei Penzin, traduzione di Shushan Avagyan, London, Pluto Press, 2017.

14. Sulla mostra non realizzata 654395 Years e sull’evento 654395 Years Are Not Enough cfr. https://www.cripta747.it/654395-years-are-not-enough-with-contributions-by-arseny-zhilyaev-and-alessandra-franetovich/

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